“I’m not sleepy and there is no place I’m going to […] Though I know that evening’s empire has returned into sand Vanished from my hand Left me blindly here to stand but still not sleeping“
Su cosa sia effettivamente l’impero della sera di cui parla Bob Dylan in uno dei suoi più famosi brani si potrebbe discutere per giornate intere senza trovare una risposta effettiva. Ma le sue parole possono essere un po’ quelle del mio pensare oggi: perché di fronte a un’emergenza di questo tipo tutti ci troviamo con le nostre certezze (i nostri piccoli imperi personali) che svaniscono via dalle nostre mani e ci lasciano a riflettere nell’oscurità dell’insonnia. Per tutti noi che siamo cresciuti con la certezza di un meccanismo, che funziona sempre, per cui non si rischia di morire di guerre, fame e malattie, il coronavirus ha tenuto a ricordarci che siamo fragili. Che il presidente degli Stati Uniti della Gran Bretagna, potenze “gigantiche”, sono pronti a rischiare la propria vita per via di un micro-organismo. Che non siamo poi tanto lontani dai nostri antenati che nel Medioevo venivano distrutti da pesti ed epidemie. Che intere società sono sempre sono sempre in bilico tra il crollo totale del proprio sistema sanitario e sociale e la normalità di prima. Dunque, ora che non posso andare da nessuna parte, che non posso vedere i miei genitori, che devo temere ogni giorno per i miei cari, posso chiedere anche io al signor Tamburino di suonare una canzone per me? Perché di fronte a tutto questo, forse, solo lo stupore dell’arte può aiutarci, come ha sempre fatto nella storia umana, a farci dimenticare della nostra scarsa resistenza di fronte a ciò che muove tutto: non il nostro Ego, né qualche potente, ma il caso.